Esiste un certo grado di familiarità nella propensione di un individuo a diventare allergico, anche se questa familiarità non è stata provata in relazione al tipo di allergene. In altre parole un genitore allergico, ad esempio, al polline potrà avere figli allergici ad acari e nipoti allergici a pelo animale, e così via.
La prima cosa da chiedersi, dunque è proprio se in famiglia ci sono altri soggetti allergici.
La permanenza in ambienti ricchi di pollini o l’abbassamento delle difese immunitarie, in seguito a una malattia o a un periodo di debilitazione, possono però contribuire allo sviluppo di allergie anche in individui non predisposti.In ogni caso, la reazione precedentemente descritta ha dei sintomi ben precisi: causa un’infiammazione delle mucose del cavo oronasale e forme di congiuntivite. I sintomi includono dunque congestione e naso gocciolante, prurito e lacrimazione degli occhi, infiammazione delle mucose, tosse continua. Possono però manifestarsi anche sintomi più pesanti come quelli caratteristici dell’asma, con difficoltà respiratorie gravi. In qualche raro caso, la reazione è tale da indurre uno shock anafilattico, con possibilità di perdita di coscienza e rischio di morte.
Il primo passo è dunque fare una buona visita specialistica con un Medico Allergologo che eseguirà sul paziente -in primo luogo- test in vivo e in vitro. Il test maggiormente impiegato è lo “skin prick test”, o test cutaneo: si esegue depositando su un braccio o sulla schiena del paziente qualche goccia degli allergeni puri che si vogliono testare e pungendo la pelle con un ago. Se dopo qualche decina di minuti la pelle ha reagito alla sostanza la persona è allergica a quello specifico allergene. Vi è poi il “patch test”, o test epicutaneo utilizzato per la diagnosi delle dermatiti da contatto. In questo caso viene posato sulla pelle del paziente un grande fazzoletto adesivo, sul quale sono posati diversi allergeni. In questo caso bisogna attendere da due a quattro giorni per avere una risposta al test, ma il meccanismo è simile a quello del prick test: se la pelle reagisce a una data sostanza posata in una zona del cerotto vuol dire che si è allergici allo specifico allergene. Nel caso i risultati di questi due primi test non siano chiari si procede al “test di provocazione o scatenamento”, che va effettuato in ambiente controllato e con la presenza di personale medico: in questo caso il paziente viene esposto direttamente all’allergene e poi viene monitorato per alcune ore per osservare se vengono registrati eventuali sintomi. Un altro tipo di indagine utilizzata è quella dei test ematici, tra i quali figura il “prist test”, col quale si cercano le immunoglobuline nel sangue senza stabilirne la natura, e il “rast test” che invece è più specifico poiché ricerca e dosa le IgE specifiche nei confronti degli allergeni sospettati. Va tuttavia considerato che questi ultimi tipi di test, di per sé, non sono sufficienti per una diagnosi affidabile e vengono considerati test di secondo livello, da applicare, se necessario, dopo l’esecuzione dei test in vivo.
Infine, soprattutto nei casi di sospette intolleranze alimentari, esiste il “test di eliminazione o sospensione”, col quale si eliminano dalla dieta gli alimenti sospetti per un periodo di due-tre settimane e si osserva se i sintomi scompaiono oppure no.